
I mestieri tradizionali
Le montagne dell’area degli Escartons hanno sempre costituito un immenso serbatoio di risorse più o meno “povere” che l’uomo ha dovuto imparare a conoscere, a valorizzare e a sfruttare per garantire la propria sopravvivenza.
“Nòu méi d’iver, tréi méi d’ënfer - Nove mesi d’inverno e tre mesi d’inferno” era un detto assai diffuso per sottolineare le difficoltà di vita e di lavoro in un ambiente severo come quello alpino. Ciò ha stimolato negli abitanti di questo territorio un forte istinto di sopravvivenza ed una grande forza di adattamento, costringendoli ad inventare mestieri alternativi a quelli tradizionali, a volte improbabili, per un completo sfruttamento di tutte le risorse a disposizione.
Accanto ai mestieri ben definiti all’interno della solida economia di autosussistenza si sono dunque sviluppati mestieri non convenzionali, attività complementari in grado di fornire forme di reddito integrative che garantissero al montanaro di rimanere nel suo ambiente, eventualmente spostandolo stagionalmente secondo modelli costruiti da più generazioni. I mestieri della montagna di un tempo si possono suddividere in quattro categorie: attività produttive tradizionali; mestieri al servizio della Comunità; mestieri alternativi alle attività produttive tradizionali e mestieri itineranti.
Attività tradizionali e a servizio della Comunità
Le attività produttive tradizionali erano quelle dell’allevatore, pastore, casaro; boscaiolo e contadino di quota. Attività queste che utilizzavano razionalmente le risorse naturali e animali.
A fare da supporto a una società quasi totalmente autonoma per la propria sussistenza, strettamente legata alle possibilità offerte dal territorio, dalle fasce altimetriche e dall’esposizione dei suoi pendii, c’era poi una serie di mestieri al servizio della Comunità.
Gente di miniera
Emblematica, in questo contesto, è la figura di Colombano Romean, scalpellino di Ramats in Alta Valle di Susa che, a partire dal 1526, in otto anni compì un’opera idraulica quasi incredibile per portare acqua agli assolati ma asciutti versanti di Exilles e di Chiomonte: una galleria lunga circa 500 metri, con una sezione di 1,80 per 1 metro che ancor oggi svolge la propria funzione irrigando le ormai esigue coltivazioni del territorio.
Come lui, tanti altri mineur (minatori) hanno lavorato sulle montagne degli Escartons estraendo rocce e minerali di vario tipo, in condizioni limite, spesso a rischio della propria vita: cavatori di pietre per i tradizionali tetti in lose, cavatori di gesso nelle Valli di Oulx e Bardonecchia, minatori di talco e grafite delle Valli Chisone e Germanasca, minatori delle miniere della Val Troncea dove nell’ottocento, con la scoperta del filone di pirite cuprifera del colle del Beth, si videro nascere fiorenti attività economiche e possibilità di lavoro conclusesi tristemente nei primi anni del novecento con la valanga che nel 1904 seppellì 81 minatori e la successiva chiusura delle miniere. Ancora oggi, percorrendo la mulattiera un tempo usata dalle maestranze, si possono scorgere importanti vestigie legate all’attività estrattiva del passato.
L’estrazione del ferro era invece una peculiarità dell’Escarton di Casteldelfino. Nell’abitato di Bellino nel XVI secolo si trovano diverse cave, fra cui la più ampia era costituita di ben dodici gallerie armate con assi e pali di legno. Si estraeva ferro crudo molto fino adatto per fabbricare l’acciaio. A Pontechianale ed a Torrette, frazione di Casteldelfino, si trovano altre cave per l’estrazine del ferro le quali furono in funzione sino agli inizi del 1700.
Maestri di montagna
Di primaria importanza per le Comunità era il mestiere del maestro di montagna: nel 1700 il livello d’istruzione delle alte vallate era molto superiore a quello delle zone di fondovalle e di pianura. I capi famiglia ingaggiavano e pagavano i maestri per istruire i giovani durante l’inverno. Anzi, proprio dalle vallate degli Escartons migravano stagionalmente i maestri di scuola che scendevano in Provenza o nel Delfinato.
Il Delacroix in un brano del 1835 descrive “questi maestri brianzonesi, che in qualche fiera d’autunno si vedono passeggiare in mezzo alla gente ed al bestiame di ogni specie, con una penna sul cappello che ne indica l’arte ed il desiderio di ingaggiarsi per l’inverno a prezzo da convenirsi. Essi insegnano a classi diverse durante il giorno e non si rifiutano di rendere servizi domestici nel tempo libero...”
Anche Victor Hugo nel romanzo i “Miserabili” cita la figura dei maestri del Queyras: “Siccome un paesetto di dodici, quindici famiglie non può sempre mantenere un maestro, hanno maestri di scuola pagati da tutta la valle, che percorrono i villaggi e passano otto giorni in questo e dieci in quello, insegnando. Questi maestri di montagna si recano alle fiere ed io li ho veduti. Si riconoscono dalle penne da scrivere nel nastro del cappello. Quelli che insegnano soltanto a leggere hanno una penna, quelli che insegnano la lettura e il calcolo ne hanno due e quelli che insegnano la lettura, il calcolo ed il latino, tre...”.
Un’economia solidale
Esisteva un vincolo di dipendenza reciproca tra le attività produttive basate sulle risorse della montagna e le attività al servizio della Comunità.
Così dalla pastorizia si arrivava alla fienagione ed alla lavorazione di burro e formaggio e queste attività prevedevano oggetti che spaziavano dalle falci fienarie ai campanacci per il bestiame (prodotti della lavorazione del ferro), dai rastrelli, ai collari per gli animali, agli attrezzi caseari (prodotti della lavorazione del legno) senza dimenticare il lavoro dei maniscalchi, dei fabbricanti di basti per gli animali da soma, o dei cestai per lo spostamento a dorso o a spalle dei materiali lungo i sentieri.
La tosatura, la cardatura davano come materia semilavorata la lana che richiedeva, come la canapa, operazioni di filatura e di tessitura svolte da figure specializzate come i cardatori ed i tessitori.
Le attività di concimazione, semina, mietitura, trebbiatura, macinatura e panificazione, prevedevano l’intervento di cavatori di pietre da macine, del mugnaio, del fornaio.
L’abbattimento, la scortecciatura, il taglio, l’accatastamento di tronchi, producevano legname da ardere e da costruzione ed implicavano l’attività di fabbri per asce, accette, cunei, anelli di trazione e chiodi, degli addetti alla segheria per ridurre i tronchi in tavole, dei falegnami per trasformare le tavole in mobili e di abili intagliatori per impreziosire arredi e semplici oggetti in uso nella vita quotidiana con i decori geometrici tipici del Queyras e della Valle Varaita oppure per produrre oggetti di arte sacra come i famosi intagli della scuola del Melezet.
L’anè, punto di incontro tra passato e presente
Inevitabile è un confronto tra l’alta tecnologia di oggi e di mestieri del passato. I manufatti degli artigiani di un tempo avevano la caratteristica fondamentale di tutte le opere fatte a mano: l’unicità. Nei prodotti moderni la perfezione tecnica è talmente evoluta che ogni opera non è più distinguibile da un’altra. Ogni opera del passato era il prodotto di un’arte incomparabile derivante da anni e anni di pratica quotidiana, di artigiani appassionati che con pochi mezzi creavano grazie al proprio ingegno ed alla propria fantasia.
Un esempio, simbolo di questa grande manualità è l’anè o manutengola, uno degli utensili più semplici e funzionali che la cultura montanara e contadina in genere abbia mai saputo produrre, affinandone le forme con l’uso e la sperimentazione quotidiana. Serve per legare qualsiasi cosa: le balle di fieno o di paglia, le fascine, i pesi sulla soma del mulo. La sua utilità consiste nel poter legare e slegare rapidamente e semplicemente la funicella ad esso collegata, anche quando questa si sia irrigidita per la pioggia o aggrovigliata per i ripetuti scrolloni di un trasporto a spalle o a dorso di quadrupede. L’anè è un umile oggetto, scelto dall’Ecomuseo Colombano Romean gestito dal Parco naturale del Gran Bosco di Salbertrand come proprio simbolo con l’intento di annodare il presente tecnologico e frenetico con un passato da recuperare nei suoi più attuali significati.
I mestieri alternativi alle attività produttive tradizionali e itineranti
Tali mestieri, che spesso diventavano motivo di commercio fuori della valle, erano svolti occasionalmente, nei momenti di tempo liberi dalle attività primarie e potevano anche coincidere con esse, come la raccolta di cristalli, dei frutti o delle erbe (il genepì - Artemisia glacialis ed affini, l’assenzio - Artemisia absintium, la lavanda o le violette, i rizomi legnosi e digestivi della genziana - Genziana lutea, le bacche aromatiche del ginepro Juniperus communis, i frutti del bosco o la pece estratta dalle piante resinose che aveva anche scopi curativi).
Degna di nota era “l’attività del viperaio”: praticata ancora di recente, consisteva nel ricevere una certa somma per la soppressione di questi rettili, credendo, come tutti, nella loro pericolosità. Qualcuno le catturava vive, per l’utilizzo nella produzione del siero antiofidico o per l’uso mirato a sperimentazioni farmacologiche.
I mestieri itineranti
Le attività alternative, soprattutto nei secoli passati, avevano lo scopo fondamentale di ricavare del denaro liquido da spendere quando nelle borgate arrivavano i colporteurs, mercanti ambulanti che partivano a piedi, gerle o armadietti stracolmi in spalla, talvolta accompagnati dai muli, e tessevano una fitta trama di scambi fra le valli portando caffé, zucchero, tabacco e sale verso le alte valli e vendendo, sulla via del ritorno, prodotti locali, pollame, uova, formaggi, burro, capretti e lana.
I mestieri itineranti comprendevano il commercio e l’artigianato girovago: il merciaio, il compratore di stracci o il venditore di stoffe, l’ombrellaio, lo stagnaio, l’arrotino, il lustrascarpe, il riparatore di ceramiche, il vetraio, la merlettaia e la donna di servizio oltre all’emigrazione stagionale per ricoprire lavori presso i grandi alberghi. Tutte attività che prevedevano il ritorno alla propria abitazione solo in occasione dei principali lavori agricoli estivi, come la raccolta del grano o della segale.